L’immagine di una donna in cucina è la più classica delle icone di una società sempre più lontana nel tempo.
Un’immagine stereotipata che, per certi versi, ben fotografa quella che ormai da anni è considerata una delle migliori chef irpine.
Antonella Iandolo, innovatrice pur senza allontanarsi dal solco della tradizione, da anni prova a portare in tavola idee nuove e creatività nell’ambito di una specificità territoriale dalla quale poche volte deroga, partendo da pochi concetti chiave che, in fondo, sono gli stessi che animavano le cucine delle nostre case fino a pochi anni orsono: organizzazione, qualità della materia prima, passione.
Concetti che, da sempre, porta in dote nel suo lavoro.
Quando si affronta il mondo dell’enogastronomia, il termine più abusato è: qualità. Che, però, non sempre va d’accordo con la locuzione: a buon mercato.
E’ possibile mangiare bene e spendere il giusto?
“La qualità per me è una priorità. Ed inevitabilmente ha un prezzo.
A meno che non ci si voglia far prendere in giro.
Faccio un esempio: se a me un chilo di Carmasciano costa 25 euro, come posso proporlo a meno?
Io, da consumatore, preferisco andare meno spesso a ristorante ma andarci con tutti i crismi, mangiando bene, bevendo bene e spendendo ciò che determinati prodotti realmente costano.
Se un piatto merita di essere abbinato ad un Sassicaia, beh non bisogna rinunciarci per il prezzo!“
Quanto incide secondo lei un buon vino per esaltare il gusto di un piatto e quanto, al contrario, un vino non buono può compromettere il sapore di un piatto ben preparato?
“L’abbinamento vino-cibo è fondamentale. Per esaltare le caratteristiche di entrambi. Quando ci si siede a tavola ci vorrebbero le istruzioni per l’uso. Ed i grandi chef lo fanno.
Come si studiano i piatti che si preparano in cucina, allo stesso modo si studiano i vini che si vanno a proporre in abbinamento.
Andrebbe fatto sempre ma, per onestà, devo dire che da noi questa cultura è ancora poco diffusa per cui raramente alla spiegazione dei piatti che si servono segue una spiegazione del vino che si propone in abbinamento”.
In un ristorante, lo chef ha voce in capitolo nella composizione della carta dei vini?
“Dovrebbe averla, ma non sempre accade. Nella mia carriera, mi è capitato in sole tre occasioni che mi venisse chiesto un parere in merito.
Io ritengo che sia importare ascoltare lo chef prima di procedere con l’acquisto dei vini. Ne va della buona riuscita di un ristorante.
Quando ho lavorato in locali con cantine fornite, si è sempre trattato di esperienze riuscite”.
Occorre quindi diffidare da chi presenta vini o altri prodotti con marchi di qualità a costi eccessivamente bassi?
“Certo, è possibile incappare in operatori poco corretti che spacciano prodotti non di prima scelta come tali.
In tema di vini, secondo me, è più facile smascherare che fa questi giochetti perchè un vino se non è buono lo si capisce subito.
Nel cucinato, invece, è più facile inserire semilavorati non di qualità, che non sempre vengono intercettati al gusto”.
Quanto è cresciuta, negli ultimi anni, la cultura del bere bene?
“Moltissimo”.
E quella del mangiare bene?
“Non in maniera altrettanto forte. Mi spiego meglio. Se da un lato è aumentata la consapevolezza nella selezione di un buon vino, non vale lo stesso discorso per l’abbinamento con il cibo.
Questo mi fa capire che il consumatore, in tal senso, non viene opportunamente istruito.
Capisco che, a tavola, il gusto, che è personale, ha un ruolo primario ma ritengo anche che il compito dello chef, oltre che quello di preparare i piatti, sia anche quello di insegnare a mangiare bene. Faccio un esempio.
Se dico che su un piatto di tagliatelle ai funghi porcini preparato da me non va il formaggio, il consumatore non dovrebbe rispondere: ok, ma a piace e lo metto”.
E quindi ?
“Significa che c’è un corto circuito. Ecco perchè sostengo che la formazione del consumatore sia una fase importante. E a formare dovrebbero essere anche gli stessi ristoratori, magari con serate a tema in cui mettere in primo piano il bere bene abbinato al mangiare bene”.
Rispetto a quello che è il suo stile in cucina, si ritiene soddisfatta dalle etichette irpine dei vini?
“Si pienamente. Non potevo trovarmi, nello svolgere il mio lavoro, in una posizione geografica migliore”.
Per finire, quali sono i prodotti irpini che non devono mai mancare nella sua dispensa?
“Innanzitutto l’olio extravergine di oliva, meglio se di una cultivar particolare, come Ravece o Ogliarola. L’olio è per me il principio della buona cucina e deve essere di qualità assoluta”.
Poi, adoro le cipolle, quella ramata di Montoro in primis, ca va sans dire.
E, inoltre, i formaggi, i legumi e le verdure del territorio della provincia di Avellino per i quali mi piace andare alla ricerca di particolari produzioni, ovviamente artigianali, in grado di esaltare il gusto di ogni piatto.