Eppure, a partire dall’immediato dopoguerra, il nome di Vito Nardiello è stato tra i più noti delle cronache, non solo irpine.
La sua fama di brigante sanguinario ed implacabile, Nardiello se la costruì nel suo paese natio, Volturara Irpina.
Qui era rientrato dopo la guerra e dopo essersi arruolato nell’esercito titino nella ex Jugoslavia, con le cui mostrine si era guadagnato sul campo i galloni di spietato esecutore.
Anche nei confronti di soldati italiani, avversi al regime comunista. Nel 1945 Nardiello fece ritorno nella sua Volturara. Aveva smesso la mimetica ma non le armi e la padronanza nell’usarle.
In pochi mesi creò una vera e propria banda criminale, chiamando a sé compaesani ex galeotti, dedita a saccheggi, rapine e assalti.
Le prime scorribande furono indirizzate nei confronti di alcune masserie della zona, successivamente ad essere presi di mira furono i viaggiatori che attraversavano la Nazionale.
Sulla scia di ciò che avevano fatto i briganti nel passato, che da quelle zone erano spariti da quasi un secolo, il Malepasso diventò il territorio di caccia della banda che, nel volgere di pochissimo tempo, divenne un incubo per chiunque si trovasse a passare di lì.
A pagare dazio a Nardiello fu anche il senatore Alfonso Rubilli, intercettato e rapinato nei pressi della Bocca del Dragone al ritorno da un comizio elettorale.
Nel giugno del ’46, durante un assalto ad una corriera, la banda lasciò sul selciato la prima vittima, Giuseppe Tortora. Ad agosto i morti per mano di Nardiello erano già saliti a cinque. Per lo più coloni e loro familiari che abitavano in case isolate per il cui assalto la banda aveva gioco facile.
Sul finire del mese di dicembre del 1946, Vito, detto “’o malamente”, cadde nella rete dei Carabinieri che riuscirono ad arrestarlo.
In carcere il bandito di Voltrara rimase pochi anni.
Prima ancora di conoscere la sentenza di condanna, infatti, con un blitz degna di una pellicola americana, Vito Nardiello, armato di lima e lenzuola annodate, riuscì ad evadere, nel 1951, dal carcere borbonico di Avellino, per l’epoca considerato uno dei più sicuri d’Italia.
E qui, con la latitanza, comincia il mito di Nardiello, che protetto dalla sua gente e dalle sue montagne, non si allontanò mai da Volturara e dall’Irpinia, sfidando apertamente le forze dell’ordine, trascorrendo quella che Giuseppe Alessandri, nel suo volume “La storia di Vito Nardiello, il lupo d’Irpinia”, definisce latitanza “a domicilio”.
La primula rossa irpina riuscì a nascondersi tra la sua casa di Tavernole di Volturara ed il centro del paese della Bocca del Dragone, riscendo sempre a sfuggire alla cattura.
A dargli manforte la sua compagna di una vita, Rosa Raimo, con cui ebbe anche quattro figli, alcuni dei quali nati proprio durante la latitanza.
Nel febbraio del 1952, i Carabinieri furono ad un passo dalla sua cattura.
La casa in cui si nascondeva fu circondata. Nardiello, però, diede ancora una volta prova della sua abilità con le armi, uccidendo un militare e ferendo gravemente il comandante della stazione dell’Arma di Volturara.
La sua latitanza durò oltre dieci anni. Sul suo capo furono messe varie taglie, da uno fino a cinque milioni, con tanto di avvisi e foto segnaletiche affissi sulle cantonate del paese.
“Per chi mi tradisce c’è il cimitero”: così vergò di suo pugno un manifesto Nardiello, secondo la leggenda.
La latitanza del brigante di Volturara Irpina si chiuse il 13 marzo 1963, quando fu stanato nella sua abitazione.
In carcere rimase 23 anni e, nonostante la condanna all’ergastolo, nel 1986 ottenne i benefici della libertà vigilata e nel 1991 la piena libertà.
Vito Nardiello si spense nella sua Volturara nel 2001.