(Intervento del Notaio Fabrizio Pesiri) Lo spunto per ritornare a ragionare della commerciabilità degli immobili abusivi è offerto dalla recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 8230/2019, la quale fornisce anche un ulteriore motivo di riflessione sulla dimensione etico-sociale dell’attività di edificazione in spregio della normativa urbanistica, sia essa perpetrata da professionisti del mattone, sia essa realizzata da privati cittadini, ma che in entrambi i casi lede profondamente i valori dell’ambiente, del territorio, del paesaggio, avvertiti dalla collettività, oggi più che mai, come fondamentali e cardinali.
L’immobile con abuso edilizio
Settore, quello immobiliare, nel quale il notaio è attore protagonista, figura professionale tradizionalmente delegata dallo Stato alla “gestione” dei beni immobili, chiamato a decidere “in trincea” – a fronte di un immobile per esempio affetto da vizi di abusivismo più o meno gravi– se esso possa essere trasferito validamente da Tizio a Caio, in altri termini se esso possa rappresentare oggetto materiale idoneo a soddisfare quello specifico interesse e bisogno dell’acquirente (si pensi alla prima casa o al locale commerciale nel quale egli immagini di esercitare la sua attività d’impresa).
Una soluzione basata su profili meramente emotivi e personali non sarebbe corretta, sol che si consideri che il notaio non è arbitro della decisione sulle sorti del bene abusivo, e il suo ruolo non è quello di ostacolare tout court –vestendo l’abito del giustizialista o del moralista– la circolazione della res “illecita” perché realizzata in violazione della normativa urbanistica, bensì quello di garantire al cliente il perseguimento di un suo interesse concreto, nonostante le sue personali convinzioni di natura extragiuridica.
A riprova di ciò, soccorre la normativa che regola la professione notarile, che sanziona il notaio che si rifiuti di stipulare un atto quando esso sia valido, legittimo e conforme ai principi dell’ordinamento giuridico.
Da qui una prima considerazione, che deve rappresentare il filo conduttore di ogni riflessione sulla lotta all’abusivismo edilizio: il più efficace strumento di repressione è rappresentato dalle sanzioni penali e dalle sanzioni amministrative (demolizione, rimessione in pristino dello stato dei luoghi e, nei casi meno gravi, pene pecuniarie), che colpiscono rispettivamente l’autore del reato e colui che si trovi, in quel determinato momento storico, ad essere proprietario del bene, sia esso l’autore materiale dell’abuso ovvero l’acquirente successivo, senza alcun riguardo al profilo circolatorio.
La Gravità dell’abuso
Una seconda riflessione, invece, riguarda la “gravità” dell’abuso: dal livello più alto dell’assenza di concessione edilizia o della difformità totale del bene realizzato rispetto a quanto assentito, evidentemente perseguibile con le sanzioni amministrative più incisive anche demolitorie, a quello via via meno grave, quali le difformità parziali, le variazioni non essenziali, le mere irregolarità, sanzionabili efficacemente con le sole pene pecuniarie, in aderenza al principio generale di proporzionalità della punizione rispetto all’illecito commesso.
La sanzione della “nullità” urbanistica, introdotta gradualmente dal legislatore a partire dal 1977 (legge n. 10 – cd. Bucalossi), per poi essere trasfusa nel sistema con la legge 47/1985, che rappresenta la prima normativa nazionale sistematica in materia di lotta all’abusivismo edilizio, e riprodotta nel Testo Unico dell’Edilizia (art. 46 del D.P.R. 380/2001), colpisce “gli atti tra vivi (….) aventi per oggetto il trasferimento o la costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti (….), ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire (…)”, evocando i casi più gravi di “assenza” (e perciò non menzionabile in atto) della concessione edilizia rilasciata dal Comune, quindi un oggetto “totalmente” ed irrimediabilmente abusivo.
Le sentenze della Cassazione
La giurisprudenza della Cassazione ha subito sposato un’interpretazione eminentemente “formalistica” di questa norma, principalmente per salvaguardare la sicurezza dei traffici, ritenendo che bastasse una dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia “formalmente” ineccepibile ma “sostanzialmente” mendace o erronea a salvare l’atto e renderlo idoneo a produrre gli effetti traslativi del bene, senza alcun riguardo al carattere abusivo dell’immobile.
E’ evidente il pregio della tesi: secondo i suoi sostenitori, non si intende proteggere chi commette un abuso, ma si tratta di salvaguardare l’acquirente di buona fede che ha pagato l’intero prezzo e ciononostante si vede esposto all’azione di nullità (che ricordiamolo è una sanzione gravissima, giacché decreta che il contratto non ha mai prodotto –né potrà mai produrre– effetti giuridici), e all’esito essere tenuto a restituire la sua abitazione anche dopo molto tempo, perdendola definitivamente, e a doversi anche attivare per recuperare il prezzo a suo tempo corrisposto al venditore fidando sulla bontà del suo acquisto.
Nonostante queste considerazioni pratiche, dal 2013 in poi la Corte di Cassazione –pur con alterne vicende– ha optato per una interpretazione rigorosa e “sostanzialistica” del sistema, ritenendo che il legislatore abbia inteso colpire il contratto con la invalidità più grave della nullità non soltanto quando la dichiarazione del venditore sugli estremi del permesso di costruire sia semplicemente omessa (es. per dimenticanza) o errata (ma il provvedimento esista) o falsa, ma anche quando, pur essendo correttamente menzionato il titolo, il bene sia stato realizzato in totale o parziale difformità rispetto a quanto autorizzato.
Alcune sentenze non distinguono neppure le variazioni essenziali da quelle non essenziali, in taluni casi sanzionando con la nullità anche gli abusi minori (es. realizzazione di una veranda, giacché avrebbe alterato sagoma e volume dell’abitazione originaria).
In ragione di questo contrasto interpretativo, che ha creato non pochi problemi al mercato degli immobili ed alla sua sicurezza giuridica, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali, con la citata sentenza 8230/2019, hanno decretato che il permesso di costruire non deve essere soltanto “formalmente” enunciato dal venditore, ma esso deve anche “effettivamente esistere” ed essere “riferibile” proprio a quel determinato immobile, indipendentemente –si badi– dalla conformità del bene medesimo al titolo abilitativo, e ciò sia se l’abuso sia stato commesso in corso d’opera, sia se sia stato perpetrato dopo l’ultimazione dei lavori di realizzazione.
E’ evidente che i giudici di legittimità hanno inteso salvaguardare, come valore assoluto, la certezza dei traffici, decretando la validità dell’atto di trasferimento anche in caso di difformità, delegando la lotta all’abusivismo alle sanzioni amministrative (che “seguono” il bene, come illecito permanente, e vengono inflitte senza limiti di tempo e colpiscono colui il quale si trovi ad essere proprietario del bene al momento dell’accertamento dell’abuso); hanno anche posto ad esclusivo carico dell’acquirente l’onere –a fronte delle dichiarazioni del venditore sui titoli abilitativi, esistenti e riferibili al bene– di verificare la conformità del bene stesso, per come effettivamente realizzato, alle prescrizioni del permesso di costruire.
Qual è il compito del notaio allora?
Egli non potrà, stante la carenza di competenze tecniche, garantire all’acquirente l’assenza di abusi, ma dovrà, pena una sua responsabilità professionale:
- avvertire il venditore delle conseguenze derivanti da un’eventuale dichiarazione falsa, incompleta o erronea degli estremi del provvedimento abilitativo o delle notizie in ordine alla situazione urbanistica del bene;
- analizzare direttamente i documenti forniti dal venditore, rilevando eventuali manifeste discrasie desumibili per tabulas;
- avvertire l’acquirente tempestivamente (e cioè prima della data di stipulazione del contratto di trasferimento) delle conseguenze della mancata verifica, in un momento precedente all’atto, della conformità urbanistica del bene, sollecitando un controllo preventivo, magari con l’ausilio di un tecnico di fiducia o munendosi di una perizia tecnica giurata, sottolineando che la scoperta dell’abuso in un momento successivo potrebbe esporlo –da nuovo proprietario– ad eventuali sanzioni amministrative (pene pecuniarie o, nei casi più gravi, ordine di demolizione parziale o totale del bene).
Ma la tesi della Corte di Cassazione offre un ulteriore vantaggio, particolarmente rilevante.
Avendo “legittimato” la piena commerciabilità del bene abusivo (fatti salvi ovviamente i casi più gravi della mancanza del titolo abilitativo o della totale difformità), le parti –pienamente avvedute ed informate sulla situazione urbanistica del bene– hanno finalmente la possibilità di regolamentare compiutamente ed espressamente in atto le conseguenze dell’abuso commesso dal venditore (o addirittura dai precedenti proprietari), ad esempio concordando e giustificando una riduzione del prezzo, oppure regolando la rivalsa dell’acquirente in caso di applicazione da parte dell’Autorità di una sanzione amministrativa pecuniaria o di emissione di una ordinanza ripristinatoria (anche attraverso il deposito di una somma di danaro presso il notaio a garanzia di tali eventi – cd. istituto del deposito-prezzo), ovvero ancora disciplinando le modalità, i tempi e la cura della eliminazione dell’abuso (es. rimozione della veranda o del soppalco), e così via.
Quando l’Abuso è reato.
Il tutto, come è ovvio, nei casi in cui l’abuso non integri un reato, perché in questo caso il notaio, quale Pubblico Ufficiale, è tenuto a darne notizia alla competente Autorità, salvo che esso non sia stato già denunciato e/o rilevato dalla Pubblica amministrazione.
Cui prodest?
Ma chi potrebbe avere interesse ad acquistare con razionale consapevolezza un immobile abusivo, ad acquistare “a rischio e pericolo”?
I casi
Si pensi ad un’abitazione ricavata dalla chiusura di un portico coperto, ad un locale commerciale di dimensioni maggiori rispetto a quelle assentite, ad un volume realizzato in sopraelevazione, ad un mutamento di destinazione d’uso “rilevante” (es. trasformazione di un deposito o di un locale artigianale in unità abitativa).
Sono ipotesi, queste, nelle quali sussiste una ragionevole probabilità di essere colpiti da un ordine di demolizione o ripristino dello stato dei luoghi (o da una confisca), o per lo meno da una sanzione pecuniaria.
Ebbene, gli interessi possono essere i più disparati, e pienamente legittimi nella ricerca dell’equilibrio di uno scambio concreto: l’acquirente potrebbe aver concordato un prezzo notevolmente più conveniente, o avere interesse ad abbattere per ricostruire, o avere intenzione di contestare il carattere abusivo dell’opera nelle sedi opportune.
La tesi delle SS.UU. della Cassazione, in definitiva, presenta gli indubitabili vantaggi di salvare nella quasi totalità dei casi la validità del contratto, tutelando così l’acquirente di buona fede che ha fatto incolpevolmente affidamento sulla regolarità urbanistica del bene; al contempo, permette di uscire dalla ipocrisia della non-conoscenza dell’abuso e di aprire alla regolamentazione pattizia delle conseguenze della esistenza dello stesso, almeno di quello non totale o più grave della totale difformità; ma attenzione, non abdica alla lotta all’abusivismo, semplicemente delega la tutela dell’ambiente e della integrità del territorio alle sanzioni amministrative, che colpiranno senza deroghe e senza limiti di tempo chi si trovi ad essere titolare del bene in quel determinato momento storico, anche se non sia l’autore dell’abuso, ed anche mediante la pena più grave dell’abbattimento del bene illecito.
- Ma se l’acquirente versa in buona fede e scopre l’abuso dopo aver acquistato il bene?
- Ha a disposizione un qualche rimedio verso il suo venditore?
- Può lamentarsi soltanto se – e dopo che- il Comune gli abbia inflitto una sanzione?
In questi casi, il contratto resta valido, ma l’acquirente può legittimamente invocare i rimedi previsti dal codice civile per i vizi funzionali del contratto, considerati i vizi occulti del bene o per essere il bene stesso gravato da oneri non conosciuti (art. 1489 c.c.), e quindi chiedere la risoluzione del contratto (se dimostra che egli non avrebbe acquistato il bene senza la parte abusiva) oppure invocare una riduzione del prezzo (se la porzione abusiva non inficia la funzionalità complessiva del bene), oltre a poter chiedere il risarcimento dei danni.
Conclusioni Finali ed il ruolo del notaio.
Dalla breve disamina effettuata, emerge un ruolo del notaio, ma anche dei professionisti (agente immobiliare, avvocati, tecnici) coinvolti a vario titolo nella filiera della contrattazione immobiliare –che va dalla proposta di acquisto al contratto preliminare, sino all’atto definitivo, in una sempre più intensa graduazione del vincolo contrattuale– necessariamente improntato ai caratteri della correttezza, professionalità, collaborazione, lealtà e trasparenza, in un’ottica che privilegi l’esatta e compiuta informazione del venditore e dell’acquirente su tutti gli aspetti dell’operazione economica, nessuno escluso e senza esoneri di stile.
Tanto più il regolamento di interessi sarà completo, funzionale, tecnico, non ciclostilato e “tagliato su misura” sui profili concreti della fattispecie, tanto più esso sarà in grado di garantire alle parti l’equilibrio contrattuale e la sua tenuta nel tempo, la capacità di assorbire vicende anche successive alla sua genesi, prevenendo i conflitti.
La funzione pubblica del notaio.
La giustificazione della professione notarile trova le sue radici nella funzione pubblica di cui lo Stato lo ha investito, ma si evolve nella abilità ed attitudine a conformare la volontà empirica delle parti ai principi ed ai valori fondamentali dell’ordinamento, trasformando i fini ed i motivi in regolamenti giuridici leciti, meritevoli, etici ed equilibrati, capaci di garantire alle parti il perseguimento degli scopi, degli effetti e dei risultati sperati; ma questo il notaio può realizzarlo unicamente quando –con la collaborazione sinergica di tutti gli attori della vicenda– egli sia posto nelle condizioni di esigere il rispetto delle regole e di rendere la sua prestazione con caratteri di terzietà, competenza e certezza, abbandonando gli schemi contrattuali asettici, consolidati e sempre uguali a se stessi, ed aprendosi senza paura a regolamenti di interessi atipici, articolati, purtuttavia perfettamente leciti e meritevoli di tutela secondo i principi dell’ordinamento giuridico.