Per molti resta solo un pensiero, un intento difficile da realizzare. Ma c’è chi, invece, al semplice pensiero fa seguire un atto concreto, trasformando la volontà in azione.
E’ il caso dell’avellinese Nanda Santoro, pedagogista, sposata e madre di due figli.
Un volto noto in città, sia per la sua partecipazione alla vita politica che per la scuola dell’infanzia “Accademia dei Giorni Felici” che per anni ha gestito ad Avellino.
La svolta nella sua vita arriva nel 2011.
In uno dei tanti pomeriggi uggiosi che l’Irpinia sa regalare nei mesi autunnali, Nanda si imbatte in un’associazione di volontariato che presta la sua opera nella Repubblica di Capo Verde.
Ad attirare l’attenzione della pedagogista avellinese è il suo fondatore, Padre Ottavio, missionario dalla barba bianca con il quale entra in contatto.
Il primo viaggio a Capo Verde, pochi mesi dopo.
La scoperta della missione di padre Ottavio, delle condizioni di vita del popolo capoverdiano, dell’aiuto concreto che avrebbe potuto fornire.
“Nel gennaio 2012 ero sull’isola di Fogo dove soggiornai quasi due mesi – racconta Nanda Santoro attraverso il web -. Da quel momento fu un continuo andirivieni Italia-Capo Verde, dove Italia significava “pianificare il ritorno a Capo Verde”. Mio marito che non comprendeva il perché di tanto entusiasmo, ebbe modo di “chiarirsi le idee” nell’agosto del 2012, quando in occasione del 25° anniversario di nozze dovette rinunciare al tanto agognato Santo Domingo e far posto ad un tour nell’arcipelago capoverdiano. Fu in quel preciso istante che ebbe inizio il secondo tempo della nostra vita”.

Nel giro di due anni la vita di Nanda Santoro e della sua famiglia è letteralmente cambiata.
La vendita della casa di Avellino, l’addio al lavoro, il trasferimento sull’isola di Maio in una casetta in riva al mare, una nuova attività, nuovi impegni sociali e, soprattutto, un ritrovato ottimismo.
Una fuga da Avellino, quella di Nanda Santoro, che è stata un ritrovare se stessa prima ancora che una scelta coraggiosa.
“Ricordo l’ultimo anno trascorso ad Avellino – racconta -, quando ormai avevo cominciato a non sopportare più niente e mi sentivo soffocare in una gabbia dalla quale desideravo solo fuggire. Ero stanca delle persone e dei loro soliti discorsi, stanca del traffico cittadino, del parcheggio che manca sempre, della cassetta della posta straripante di bollette e della televisione che ti bombarda con le sue storie di morte”.
La voglia di cambiamento che si scontrava con la paura del cambiamento stesso.
Più passavano i giorni e più vedevo calare il sipario su una vita che potesse minimamente definirsi tale, alla noia era subentrata l’insoddisfazione, la frustrazione, la depressione.
Cominciavo le mie giornate ripetendo meccanicamente i soliti gesti, controvoglia, spinta da un assurdo senso del dovere, guardandomi allo specchio vedevo la mia immagina malmessa, qualche volta ho tentato di appiccicarci un sorriso ma era una maschera che non reggeva più.
Poi, lo switch-off.
“Durante l’ennesima disanima esistenziale, cercavo come al solito di convincermi che nulla potesse essere cambiato. Ma quel giorno una strana lucidità corse in mio aiuto. Non posso andarmene, pensavo, perché qui ho una casa, ma una casa può essere venduta; ho un lavoro, ma la crisi spazzerà via anche quello; ho dei figli ma qui per loro non c’è futuro. Capii che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei pensato “è troppo tardi, avrei dovuto farlo prima”. Quel giorno fortunatamente non era ancora giunto, e io ero ancora padrona del mio tempo.
Un solo attimo e ricominciai a vivere”.