A rivederla oggi, l’Avellino degli anni ’70 e dei primi anni ’80, si fa fatica a riconoscere una città che pur nella sua dimensione provinciale appariva con una sua identità ben definita.
Un’identità che le era conferita innanzitutto dalla riconoscibilità dei luoghi, dalla piazza che era una piazza, dalla cattedrale che costituiva il centro vivo, dal mercato che era il cuore dell’economia locale.
E, poi, c’erano i volti, le persone, i personaggi. Che alimentavano le leggende e col tempo son diventati parte dell’iconografia urbana di Avellino.
Tra questi, uno dei volti (e dei fisici) più noti in città in quegli anni era senza dubbio quello di Mariniello, una sorta di gigante buono che sembrava uscito da una pellicola del cinema neorealista.
Mariniello era quello che oggi, con dedizione esterofila, definiremmo un clochard.
Piazza Libertà e Piazza Kennedy erano il suo territorio preferito.
Le panchine ma soprattutto i giardini, dove era solito abbandonarsi per riposare il suo fisico possente, magari all’ombra degli alberi nei mesi estivi.
A dispetto della sua mole, conseguenza di una capacità fuori dal comune di divorare qualsiasi cosa avesse anche solo l’aspetto commestibile, Mariniello era in fondo una persona mite. Ci provava a perdere la pazienza quando i ragazzini lo prendevano in giro per la sua stazza ma le sue reazioni si limitavano a poco credibili minacce.
Con passo claudicante e lo sforzo di chi suo malgrado è costretto a portare avanti un fisico pachidermico, Mariniello aveva anche nel look una sua cifra che contribuiva ad alimentare le leggende sul suo conto, con la camicia perennemente fuori dai calzoni, spesso tenuti su grazie ad una corda, e l’ombelico che faceva bella mostra di sé non perchè fosse un precursore della moda anni Duemila ma perchè i capi che indossava proprio non riuscivano a coprirlo per intero.
Negli anni ’70 Mariniello divenne ospite fisso all’Eca di Via Tagliamento, l’ente comunale di assistenza.
Sfamarlo non era affatto facile.
Non perchè fosse di palato fine. Tutt’altro. Il problema, come ricordavano le storiche cuoche dell’Eca Grazina, Rosaria e Mafalda, è che non c’era mai cibo a sufficienza per lui.
C’è chi ricorda che un giorno, per scommessa, divorò in un batter baleno sei piatti di pasta al sugo, senza dare alcun cenno di cedimento.
Il fatto che vivesse en plein air, ovviamente, qualche conseguenza l’aveva sulla sua igiene personale.
Spesso il suo ingresso all’Eca era annunciato dall’olezzo che in men che non si dica si diffondeva nei locali dell’ente. Mariniello, nella sua semplicità, di tanto in tanto comprendeva il problema e d’accordo con gli operatori, nel giardino dell’Eca, si sottoponeva a docce improvvisate, con l’utilizzo delle cannole che servivano ad innaffiare le piante.
Quelle stesse piante che, immediatamente dopo pranzo, rappresentavano il suo giaciglio preferito, dove si lasciava andare a rigeneranti pisolini non prima di aver a modo suo ringraziato per il pasto ricevuto, improvvisando concerti di musica napoletana, una sua passione che coltivava, mettendo in mostra anche una notevole intonazione.
Nel corpo di quel gigante si celava un animo buono.
E pazienza che per i bambini dell’epoca rappresentasse lo spauracchio utilizzato dai genitori per stopparli di fronte alle marachelle: chissà quanti professionisti di oggi hanno temuto di finire per davvero nello stomaco di Mariniello…
Credit Foto Copertina: A sinistra uno scatto di Nicola Bruno, a destra un’immagine tratta dal sito Avellinesi.it
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