La drammatica vicenda dell’ipotizzato stupro da parte di due carabinieri, in quel di Firenze, ai danni di due ragazze statunitensi, unita ad altri episodi similari, ha portato all’attenzione dei media una dolorosa realtà che, finalmente, sta rompendo quel velo di omertà, quella paura delle donne che hanno subìto violenza di denunciare quanto patito.

A conferma della difficoltà nel denunciare questo tipo di violenza da parte delle donne vi è il puntuale sorgere dell’interrogativo sul se il rapporto sia stato consumato consensualmente o meno: è questa una delle “armi” difensive più atroci, non solo perché tenta, in qualche maniera, di “estrarre” chi si è reso responsabile di un atto inaccettabile dal disonore e dalla riprovazione sociale; ma anche perché pone un poco accettabile interrogativo sull’attendibilità della denunciante, facendole subire inevitabilmente un’altra violenza.

Abbiamo ascoltato, a tal proposito, l’avvocato avellinese Giovanni D’Ercole, per comprendere da un punto di vista giuridico quale sia, di fronte ad episodi deprecabili come quello registrato a Firenze, il “peso” del “consenso” nel valutare (e, dunque, giudicare) le responsabilità.

Avvocato D’Ercole, nel caso specifico dello stupro consumato a Firenze, diventa ancora più interessante dal punto di vista giuridico interrogarsi sul concetto di “consenso”.

“Facciamo una doverosa premessa, senza volerci addentrare in distinguo troppo cavillosi da legulei incalliti: in Italia solo nell’ultimo ventennio (basti pensare che solo nel 1996 la violenza sessuale da reato contro il buon costume è stato classificato come reato contro la persona), in particolare attraverso il lavoro della giurisprudenza, si è giunti ad un temperamento del “modello vincolato” adottato dalla norma, intendendo per “modello vincolato” il concetto per il quale – affinché si costituisca la fattispecie di reato – vi sia, oltre alla mancanza del consenso della vittima, anche il ricorso (diretto e immediato) a una serie di mezzi di costrizione”.

Di fronte a casi del genere, è sufficiente il solo eventuale “consenso” a far cadere le gravi accuse?

“Nel caso specifico dei due carabinieri di Firenze, appare evidente come la sola indagine circa il consenso o meno delle ragazze all’atto sessuale risulti essere assolutamente superficiale se non fuorviante.

A parte il fatto che, stupro o non stupro, è inammissibile che durante l’orario di servizio uomini della gloriosa Arma dei Carabinieri pensino a “fare conquiste”, stiamo, comunque, parlando di due ragazze che in quei momenti vivevano una condizione soggettiva di “inferiorità psichica”, dovuta all’assunzione di alcool, che ne aveva oggettivamente modificato le capacità cognitive.

Tale circostanza difficilmente poteva passare, tra l’altro, inosservata a due soggetti abitualmente operanti nella pubblica sicurezza”.

Ma oltre alla condizione soggettiva delle ragazze vi è da evidenziare anche la condizione soggettiva dei due presunti stupratori.

“Infatti, il solo fatto di condurre le ragazze a casa indossando la divisa, armati, con l’auto di servizio, nei confronti di soggetti evidentemente non sobri, non può non costituire un elemento fondamentale per dedurre la totale assenza di consenso (non essendo le ragazze in grado di prestare o meno il consenso stesso), oltre a elementi di costrizione dovuti e riconducibili alla autorità rivestita dai carabinieri.

Non conosco pienamente tutti i fatti dell’indagine e quelle che saranno le relative risultanze, ma su una cosa mi sento sicuro: tutto il parlare che in questi giorni si è fatto sulla circostanza del consenso delle giovani statunitensi al rapporto consumato è non solo giuridicamente erroneo, ma – purtroppo – evidenzia una cultura che certamente non incentiva le sfortunate donne vittime della violenza a denunciare quello che hanno patito”.