I ciclomotori degli anni ’80 costituirono una rivoluzione dei costumi oltre che della mobilità nelle città italiane: mezzi cult, indimenticabili ancora oggi.

Per chi, a quell’epoca, aveva dagli 8 ai 25 anni, il periodo che evoca i ricordi più dolci e affascinanti è senza dubbio quello degli anni ’80.

Sarà per via della memoria perduta o perchè, in fondo, i ricordi di quando si era poco più che bambini hanno sempre un sapore speciale, fatto sta che ancora oggi, praticamente un’era geologica dopo, basta davvero un niente per aprire quello che appare come uno scrigno dei sogni.

Dalle interminabili partite a pallone in strada (altro che Playstation!) alle ricerche di studio da fare esclusivamente in biblioteca (Google, chi era costui?), dalla lunga attesa per vedere i gol della squadra del cuore a 90° Minuto (Sky era fantascienza) ai lunghi giri per le vie della città in sella ai motorini.

Già, i motorini. Perché tutti così chiamavamo i ciclomotori degli anni ’80, antesignani dei moderni scooter.

A rivederli oggi e a rievocarne i nomi, a qualcuno scenderà la lacrimuccia.

Perché quel mezzo a due ruote con un motore a cilindro da 50 cm³ con il quale si circolava senza avere l’obbligo di indossare il casco costituiva il primo simbolo di libertà e di crescita, anagrafica ed economica, un vero status symbol che, al compimento dei 14 anni, l’età minima richiesta per poterlo guidare, sanciva di fatto il passaggio al mondo dei grandi.

A farla da padrone, in quegli anni, erano i motorini griffati Piaggio.

In giro con il Ciao.

Su tutti dominava il modello Ciao, che già negli anni ’70 si era affacciato prepotentemente sulle strade delle città.

Unico inconveniente: la sella modello bicicletta che non consentiva il trasporto del passeggero.

Che per chi utilizzava il Ciao per far colpo sulle ragazze (e viceversa) era un bel problema. L’alternativa era rappresentato dal portapacchi posteriore che poteva essere utile alla causa ma peccava in comodità.

Ed, allora, ecco che si fa strada la creatività: col trascorrere del tempo lo spazio posteriore viene “arricchito” da una sorta di cuscino faidate, per rendere piacevole la passeggiata in due.

Un inconveniente, questo, comune anche al Bravo, altro modello a due ruote in voga in quegli anni, così come il Boxer.

La svolta arriva con l’avvento del Si, altro mezzo cult della casa di Pontedera.

La linea ricordava molto il Ciao, ma la sella sembrava fatta apposta per condurre comodamente due persone.

La Vespa 50 uno status symbol.

Discorso a parte, rimanendo in casa Piaggio, merita ovviamente la Vespa 50, senza dubbio il nome più celebre, ancora oggi, quando si pensa ai mezzi a due ruote.

In quegli anni, di cinquantini, ne giravano, ma i vespisti, vuoi per la linea del ciclomotore vuoi per il prezzo, erano considerati quasi di un’altra categoria.

Anche perchè, il motorino serviva principalmente per attirare l’attenzione.

Non a caso una svolta imprevedibile per gli habituè delle due ruote avvenne nel 1986, quando fu introdotto l’obbligo dell’uso del casco anche per circolare in città sui ciclomotori.

Praticamente un dramma: per le acconciature (soprattutto delle ragazze), per la difficoltà a farsi riconoscere e perchè, allora, indossare il casco era considerato da sfigati!

(Su questo punto va detto che i giovani di oggi sono sicuramente più avanti di noi degli anni ’80: oggi lo sfigato e lo stupido è chi il casco non lo indossa. Ed è giusto che sia considerato tale).

Poi venne anche il tempo in cui, a fare la differenza, oltre alla velocità, era… il rumore. Una piccola modifica alla marmitta ed il gioco era fatto.

Se la Piaggio era considerata la casa dell’eleganza e della praticità, altri modelli di ciclomotori che si affermarono in quegli anni, prodotti da altre aziende, divennero il simbolo dell’aggressività.

L’indimenticabile rombo del Califfone.

Chi ricorda i cosiddetti tuboni?

Il Fifty della Malaguti, il Ciclone della Garelli e il Califfone dell’Atala fecero epoca, facendo correre un’intera generazione.

E sono in tanti coloro che, al solo leggere questi nomi, possono aprire il cassetto dei ricordi e degli aneddoti, scovando episodi che, in fondo, oltre che a quella personale di tanti, appartengono alla storia del costume di un’Italia “analogica” che a ripensarla oggi fa tanta tenerezza.

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